Negli ultimi tempi si è sentito sempre più parlare di soldati che si tolgono la vita nelle caserme o durante l’orario di servizio. È difficile poter individuare delle cause specifiche e sarebbe riduttivo poter trovare nel lavoro l’unico fattore scatenante questo comportamento. È vero però che ci sono delle professioni che più di altre mettono la persona in una condizione di stress elevato portando a conseguenze quali per esempio il burnout. Chi lavora nell’esercito, e nelle forze armate più in generale, è continuamente esposto ad eventi stressanti, come nel caso di una missione all’estero, che richiede un allontanamento da casa per molti mesi, un cambiamento non sottovalutabile del territorio, del clima e della cultura del luogo. La situazione diventa più complessa nel momento in cui la persona si trova esposta a un evento traumatico come una zona di guerra. È con il termine disturbo da stress post traumatico che indichiamo questa condizione stressante.
Le persone che hanno vissuto esperienze traumatiche e che continuano a vivere come se nulla fosse accaduto, dissociano se stesse dalla realtà e dal proprio dolore, pagando un prezzo molto alto: ottundimento emotivo e restringimento della consapevolezza, i quali portano il soggetto ad un’incapacità di affrontare al meglio la realtà (De Zulueta F., 2006).
Secondo i dati disponibili più recenti del Dipartimento per gli Affari dei Veterani (novembre 2011), attualmente negli Stati Uniti il 20% dei 23 milioni di donne e uomini nell’esercito che ha combattuto in zone di guerra, quali Vietnam, Iraq e Afghanistan, soffre di Disturbo da Stress Post Traumatico; e tra i reduci di guerra ci sono 21 suicidi al giorno. A parte le ferite fisiche, a volte ben visibili, c’è uno scenario psichico di profonda compromissione, che non sempre è evidente in queste persone provate da esperienze violente e scioccanti.
Purtroppo, non sempre i soldati chiedono aiuto, per imbarazzo, o per paura che possano perdere il posto di lavoro. Queste motivazioni sembrerebbero essere alla base del dato eccessivamente basso di sofferenza clinica dichiarata dalle forze armate italiane, che denunciano pochi casi gravi all’anno di uomini e donne affette da Disturbo da Stress Post Traumatico. Dobbiamo inoltre considerare che quando si parla di DSPT si pensa solo ai casi più gravi, ma non sempre è così, perché molte persone ne soffrono senza che abbiano una sintomatologia evidente rimanendo danneggiati in profondità.
Questi soggetti sono come “rapiti” dalla memoria di quello che è successo loro, e nel rivivere quel momento, con i flashback e le memorie intrusive, sono invalidati; essi vengono resi “vuoti” dal trauma fino a ridursi ad uno stato di mera sopravvivenza. Sono vite minime. Sono vite senza affetti, senza piaceri, senza progetti. Sono vite rovinate.
Quando si parla di Disturbo da Stress Post Traumatico, si descrive <<un disturbo che si presenta dopo l’esposizione ad un evento stressante di gravità tale da implicare pericolo di vita, o minaccia all’integrità fisica del paziente o di altri. Tale evento deve avere determinato una reazione di intensa paura, di orrore e la sensazione di sentirsi inerme di fronte al pericolo>> (La Barbera D., Varia S., 2003).
Il Disturbo da Stress Post Traumatico è essenzialmente una risposta bifasica, che comporta:
L’evento traumatico è rivissuto sotto forma di immagini intrusive, spesso a carattere terrifico, rievocanti l’evento vissuto. Allora il soggetto tenderà ad evitare tutti quegli stimoli che possono in qualche modo essere associati al trauma, con l’incapacità di provare sentimenti ed emozioni e di proiettarsi nel futuro.
Altri sintomi possono essere ipervigilanza, disturbi del sonno e incubi notturni, irritabilità, difficoltà di concentrazione, eccessiva reazione d’allarme e spesso sintomi depressivi.
Oggi la guerra ha cambiato le proprie connotazioni, divenendo sempre più asimmetrica, ed assumendo spesso le caratteristiche di una guerra psicologica interna, in cui la battaglia cruciale è il momento del ritorno alla vita “normale”, quando il soldato torna ad essere la persona in grado di riprendere la strada che aveva lasciato prima della missione.
In linee generali, durante l’addestramento di un soldato si cerca di aiutarlo ad essere preparato ad affrontare le situazioni che potrebbe vivere durante una missione. Tuttavia, quello che oggi sta accadendo è un fenomeno bellico del tutto differente a quello che in passato si doveva aspettare un militare in guerra: non ci sono più situazioni tipiche in cui si viene attaccati e si risponde a questo attacco, ma possiamo dire di vivere in un secolo in cui si combatte una guerra del tutto nuova, con scenari non prevedibili, di fronte ad un nemico atipico, che non indossa una divisa ma abiti civili e che spesso sotto quelle vesti porta ordigni esplosivi che rendono le sue azioni del tutto inaspettate. Il militare che lavora in questi contesti non utilizza più gli insegnamenti che ha appreso durante l’addestramento, perché non ci sono regole in questi nuovi scenari di guerra.
Anche i compiti che deve svolgere non sono più quelli dell’attacco con le armi, ma si trova a compiere operazioni di pattugliamento e controllo del territorio che lo portano a stare in stretto contatto con la popolazione locale. È l’attesa di un attacco, che potrebbe avvenire in qualunque momento e da qualunque persona (anche da un bambino o da una donna) che fa salire la tensione psichica, facendo vivere il soldato in uno stato di allerta costante, che diventa emotivamente ingestibile.
La possibilità di superare efficacemente il Disturbo da Stress Post Traumatico è data da un intervento tempestivo. Per questo si rende necessaria la figura dello psicologo nelle basi militari impegnate in territori stranieri, in quanto un intervento dopo che il soldato venga rimpatriato non consente la rapidità necessaria al superamento della sintomatologia. L’intervento deve mirare a rendere consapevole il soldato che le paure e i timori sulle prestazioni future sono eventi attesi e previsti, che, grazie al trattamento, saranno superati.
La terapia del Disturbo da Stress Post Traumatico deve essere altamente personalizzata, e il terapeuta deve essere in grado di capire se e quando è possibile per il paziente operare un’integrazione delle esperienze traumatiche scisse; <<integrare il ricordo del trauma nell’ambito della continuità del sé del paziente può essere un obiettivo non realistico, in quanto il paziente non deve essere costretto a procedere con ritmi che diventano eccessivi e disorganizzati>> (Gabbard G.O, 2005).
Un altro aspetto importante per il superamento del DSPT è il sostegno sociale di cui il paziente può giovare. Condividere l’esperienza può infatti dare rassicurazione alla vittima, anche se questa non sempre è disposta a raccontare ciò che le è accaduto. Purtroppo però ciò non dipende sempre dalla persona, in quanto il contesto culturale e ambientale in cui essa vive può influire negativamente sulla possibilità di percepirsi come meritevole di ricevere aiuto. Ciò si può vedere con le forze armate italiane, che per paura di un giudizio negativo sembra che nascondano il problema; ma lo vediamo anche in tutte quelle persone che vivono in paesi occidentali in cui si ha la tendenza a vedere le vittime di trauma come responsabili di ciò che è loro accaduto (per esempio, nel caso di abuso sessuale).
Così, nel momento in cui hanno più bisogno di sostegno e aiuto, molto spesso le vittime vengono lasciate a soffrire da sole. Pensiamo, per esempio, a tutti quei veterani della guerra del Vietnam, che, al ritorno dal conflitto nella metà degli anni ‘70, hanno dovuto fare i conti con l’ostilità di tutta quella gente, tra cui i propri familiari ed amici, che era contro la guerra.
Nulla quindi esclude che il sentirsi soli, abbandonati, non compresi dall’ambiente circostante possa favorire il DPTS nei soggetti che hanno vissuto esperienze traumatiche.
Dott.ssa Cristina Lo Bue
BIBLIOGRAFIA
3 Comments
Buonasera dottoressa ….sono un soldato che ha fatto varie esperienze all’estero in paesi diversi. L’articolo che Lei a scritto devo dire che rispecchia molto la realtà a cui un soldato e soggetto al rientro in patria.Il vostro lavoro per noi è per le nostre famiglie è molto importante e speriamo che in futuro si possa fare di più per le persone che ne hanno bisogno.
Buonasera Alessandro, purtroppo non sempre si presta la giusta attenzione alla vostra professione e allo stress che da questa deriva, sia in missione che nella vita lavorativa normale. Non sempre in questo ambiente la figura dello psicologo viene valorizzata come professionista che possa aiutare i militare e ci sono tante barriere culturali che ancora devono essere superate. Nel nostro piccolo cerchiamo di offrire supporto non solo a voi ma anche alle famiglie. Speriamo che la politica possa un giorno eliminare qualunque pregiudizio e garantirvi un lavoro più sereno ringraziandovi per tutto quello che fate giornalmente.
Salve Dottoressa, sono Angelo un ex militare in servizio per 16 anni che proprio per i problemi che Lei ha scritto, le barriere culturali è mi dispiace dirlo tanta ignoranza nell’ambiente, mi sono dovuto nascondere è soffrire in silenzio da solo dopo anni di missioni all’estero, ma alla fine non potevo più farcela è ho dovuto chiedere aiuto è proprio in quell’istante i miei problemi sono aumenti perché invece di darti una mano ti danno solo altri problemi . Mi curo da anni ormai perché nel tempo sono peggiorato non avendo seguito una terapia nell’immediato del problema. Adesso non sono più in servizio è sono stato visto come pazzo da voci dette dai Militare di grado superiore a quelli inferiori che essendo culturalmente meno preparati mi hanno catalogato un pazzo come se il problema era mio della mia testa . Purtroppo per i livelli superiori io sono stato un problema che dovevano emarginare è fare da specchio per gli altri ,mandare un messaggio..è meglio stare zitti che dire la verità è chiedere aiuto. Non vogliono capire anche perché non soffrono loro, a un certo punto non c’è la fai più , decidi che è meglio stare bene è curarsi che il lavoro anche perché non riesci più a farlo .Assistenza zero anzi solo problemi in più è questo ti ferisce tanto dopo che hai rischiato la vita per il tuo paese. Il mio più grande desiderio è guarire, poter dire un giorno ,adesso sto bene di nuovo..come tanto tempo fa.